
Vi ringrazio, miei signori;
proveremo ad altro tempo
un Andante, Allegro e Presto,
che faravvi stupefar.
Un Cantabile con moto,
un Larghetto, un Andantino,
che un talento sopraffino
non potrà giammai imitar.
Così si congeda dagli orchestrali il Maestro di un delizioso intermezzo comico (Il maestro di cappella) che Domenico Cimarosa mise in musica verso la fine del XVIII secolo su un libretto d’autore ignoto.
A quanto pare il Maestro Beatrice Venezi, invece, potrebbe congedarsi dall’orchestra del Teatro La Fenice di Venezia senza aver dato prova della sua maestria, del suo talento sopraffino: l’orchestra, infatti, si oppone alla sua nomina. Comunque vada, non finirà bene: una modestissima musicista sarà alla guida di una prestigiosa istituzione musicale, oppure sarà trasformata in una vittima. Non so quale delle due ipotesi sia la peggiore.
Fra tutti i mestieri di coloro che praticano per professione l’Alma musica, quello del direttore d’orchestra si presta, purtroppo, alle più svilenti mistificazioni. Forse chi non conosce la musica abbastanza bene può farsi trarre in inganno da posture eleganti, da gesti coinvolgenti (o, in questo caso, da chiome svolazzanti), e non comprendere che qualche volta tutto quel gesticolare è vuoto. Una discreta orchestra ha i suoi anticorpi, nessuno vuol fare brutta figura: di fronte a un direttore debole il collettivo di musicisti aguzza l’ingegno, fin dalle prove, e cercherà di evitare il danno, auto-dirigendosi. Pochi se ne accorgeranno. Viceversa, com’è del tutto evidente, un tenore fiacco e stonato, un pianista approssimativo, un violinista impreparato, si offriranno, vittime sacrificali, al giudizio del pubblico.
Ma chi, almeno un po’, sa di musica, sa riconoscere se l’uomo o la donna con la bacchetta sta dirigendo l’orchestra, o si sta facendo dirigere da essa. Ad un’orchestra bastano pochi minuti, a volte pochi secondi, per valutare un direttore. I professori potranno sottovalutarne il talento, e scoprirne appieno le qualità solo strada facendo: ma di fronte a un direttore la cui imperizia rende improduttivo il lavoro di concertazione e periglioso l’esito del concerto, l’orchestra di solito riconosce il rischio e reagisce. E Venezi, purtroppo, non è una direttrice d’orchestra di particolare pregio, per cui di fronte a lei l’orchestra reagisce al rischio e non al gesto, il che vuol dire che Venezi non ha il pieno dominio delle partiture. Chissà, magari studiando molto, avrebbe potuto diventare una discreta musicista: ma oggi è davvero molto modesta. E infatti ha un curriculum, nazionale e internazionale, altrettanto modesto: ben maggiore, e di ben altra levatura, dovrebbe essere l’esperienza di chi viene chiamato, con tale enfasi, alla guida musicale di un teatro prestigioso (ricordo, solo per fare due esempi, che Il Teatro La Fenice nel 1853 ospitò la prima rappresentazione della Traviata di Giuseppe Verdi, e un centinaio d’anni dopo quella di The Rake’s Progress di Igor Stravinskij).
È dunque evidente che non sia il merito la ragione della designazione di Venezi, ragione che non si fa fatica, né si compie inferenza maliziosa, a individuare nella politica. A questo proposito, tuttavia, gioverebbe un atteggiamento più distaccato. Ovunque (non solo in Italia) il potere ha i suoi protetti. Potrei nominare almeno una sestina di direttori d’orchestra che negli ultimi vent’anni hanno lavorato tanto grazie alle loro protezioni politiche, per lo più maschi e mediocri, anche nell’area opposta a quella che magnifica l’inesistente talento sopraffino di Venezi. Ma uno dei passatempi più diffusi, nelle vuote e perniciose chiacchiere social, è lo stracciarsi le vesti a senso unico. Non ricordo questi stracciavestine scandalizzarsi e strepitare in altri casi di direttori modesti (o peggio), maschi e protetti dai potentati politico-culturali progressisti, i quali per decenni hanno per molti aspetti paralizzato la vita artistica e culturale, nel cinema come nel teatro, nella musica come nelle arti figurative, per non parlare di Accademie, Conservatori e Università.
C’è poi un’altra questione, non meno rilevante. A dar voce al dissenso pare siano, come dicevo, soprattutto i professori d’orchestra della Fenice. E gli stracciavestine di professione si affrettano a commentare: pour cause! chi più di loro ha diritto di opporsi? Così fu a Palermo in una precedente vicenda, sempre a proposito di Venezi. E si evoca anche la recente indicazione di Myung-Whun Chung alla Scala, col consenso (del sindacato) dell’orchestra, la quale (il quale) invece quel consenso avrebbe negato a Daniele Gatti, direttore invero di ben altro spessore.
Ora, le orchestre importanti e prestigiose hanno modo, e a volte diritto, di dir la loro sulla nomina di un direttore stabile. Ricordo, fra tanti, il caso dei Berliner Philharmoniker. Questo diritto è apertamente o tacitamente riconosciuto, tuttavia, a compagini di livello elevatissimo. Ebbene, in Italia oggi, a tal livello c’è una sola orchestra, quella dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, l’unica vera orchestra sinfonica italiana degna di rivaleggiare con le più prestigiose compagini del mondo. Con tutto il rispetto: nè l’Orchestra della Fenice, né quella della Scala (o la sua Filarmonica che sia) raggiungono quel livello. Dunque nei rapporti di forza che, apertamente o nascostamente, regolano le relazioni artistiche, io ritengo che nessuna orchestra italiana tranne quella di Santa Cecilia potrebbe oggi a buon diritto pretendere un ruolo intensamente decisionale o imporre un aut-aut nella scelta di un nuovo direttore stabile, tantomeno decretare e proclamare un ostracismo preventivo a un direttore, neppure a Beatrice Venezi. In questi casi hanno sempre agito, con successo, meccanismi più empirici e discreti: un direttore che non riesce a creare un buon rapporto con l’orchestra di solito non la dirige a lungo.
Insomma, come dicevo in apertura, comunque finisca, a farne le spese sarà l’Alma musica: o avremo una modesta direttrice a guidare la produzione musicale di un teatro prestigioso, o avremo l’ennesimo episodio di vittimismo politico, e Venezi, se non a Venezia, finirà a far danno da qualche altra parte.