Chi sta uccidendo la Musica?

Una piccola galleria d’immagini, per cominciare

La prima immagine è un ricordo, per me indelebile: avevo 18 o 19 anni.

In quegli anni le sei o sette ore al giorno al pianoforte non mi impedivano di divorare tanta altra musica: il repertorio sinfonico, quello cameristico, la grande musica sacra di Bach, il teatro di Verdi e di Alban Berg (Wagner, Tristano a parte, sarebbe arrivato molto dopo). Cresceva la mia collezione di dischi (vinili, ovviamente, ma allora non li chiamavamo vinili, che oggi fa molto cool: erano semplicemente dischi), e riuscii ad acquistare questo, il Quintetto per archi di Schubert, proprio in questa splendida esecuzione. Un disco che poi avrei letteralmente consumato. Non voglio e non riesco a dire nulla della bellezza della esecuzione, perché troppo ci sarebbe da dire. Ma qui voglio soffermarmi sul contenitore, non sul contenuto. La copertina del disco, come spesso accadeva, ritraeva l’esecutore (o gli esecutori, come in questo caso), più o meno accentuatamente in posa, più o meno spontaneamente atteggiati. Come la copertina che vedete: cinque musicisti, uno accanto all’altro, braccia sulle spalle, sorrisi contenuti. So bene che spesso gli ensemble cameristici stabili sono palcoscenico di tumultuosi rapporti interpersonali: ma qui c’è un quartetto stabile (il Quartetto Melos) e un musicista ospite, Mstislav Rostropovich. Hanno lavorato a un progetto, studiato, provato, eseguito, registrato. Basta: la copertina non deve dire altro. Non c’è bisogno di immagini patinate, evocative. Spesso era così. Oppure, se c’era una riproduzione di una immagine (una fotografia, un dipinto) era legata al contenuto. Indimenticabile la bellissima copertina (la Deposizione di Colijn de Coter), in perfetta sintonia col contenuto, dello Stabat Mater di Rossini diretto da Carlo Maria Giulini


Il prodotto, tanto per Rostropovich e il Melos Quartett quanto per lo Stabat Mater diretto da Giulini, era dentro. E che prodotto…
Le altre tre immagini sono di oggi.

Le due copertine “beethoveniane” sono omaggi a Ludwig van Beethoven nel 250° anniversario della nascita.
Il gusto grafico è opinabile: per me sono entrambe veramente brutte, quella del disco della Garanča in particolare, con quell’orribile “Musical Moments” nella cornice gialla in cui per decenni abbiamo letto semplicemente “Bach” o “Mahler” o “Giulini” o “Kleiber”. Un obbrobrio.

L’altra ha più pretese concettuali: si capisce che è pensata per palati più fini (???) rispetto al potenziale pubblico incuriosito dal nome della celebre mezzosoprano lettone.

L’ultima, apparentemente più sobria, in realtà secondo me batte le altre per cattivo gusto, e per deformazione concettuale.

All’autore dei brani (Robert Schumann) viene associata una immagine che è (o appare essere) un irritante clone di un celebre dipinto romantico, Der Mönch am Meer (Il monaco in riva al mare) di Caspar David Friedrich, nel quale tuttavia la figura del monaco quasi scompare, sovrastata dalla inquietante e maestosa scena che invade tutta la tela, una tempestosa visione naturalistica che travolge anche noi che guardiamo.

Nella grottesca copertina del disco, dai colori più rassicuranti, mediterranei (ricorda “il cielo azzurro e alto, che pare di smalto”, di una canzone di Paolo Conte), la figura in primo piano (evidentemente quella del pianista) è assai più grande dello sfondo, sovrasta il resto della veduta. Ammesso e non concesso che il dipinto di Friedrich abbia ispirato la scelta dell’immagine, si tratta di una volgare falsificazione concettuale, non solo rispetto al pittore ma anche rispetto alla musica di Schumann, che tutto è tranne quella roba lì.
Se poi il grafico non ha affatto pensato a Friedrich, né lo conosce, resta il fatto che quella copertina è la più anti-schumanniana che si possa immaginare: propone una immagine, sì, un po’ pensierosa, ma rassicurante, “non preoccupatevi, sono solo assorto, ma niente di serio”. Povero Schumann.

Vi pare che mi sia soffermato troppo sulle confezioni? E il contenuto?

Se la sobrietà della copertina con Rostropovich e il Melos, o anche i primi piani più sofisticati e vanesi dei dischi di Benedetti Michelangeli, non disturbavano affatto, rispetto al contenuto, occorre dire che anche in questi dischi del 2020 possiamo apprezzare una coerenza tra contenitore e contenuto. Sospendo il giudizio nel merito per il disco della Garanča, confesso che non sono riuscito ad ascoltarlo: è – si direbbe – un singolo, contiene, a quanto pare, un solo Lied di Beethoven, Zartliche Liebe (Tenero amore), WoO 123, e siccome è uscito il 18 dicembre 2020, dunque a ridosso dell’anniversario beethoveniano, mi pare un pessimo modo per omaggiare la memoria del compositore. Una scelta del genere è già “contenuto”, per quanto bene (o male) possa essere eseguito il Lied.

Il contenuto degli altri due dischi invece l’ho valutato.

Max Richter, pubblicatissimo da Deutsche Grammophon, pare sia un autore di colonne sonore, certo è un inessenziale “compositore”, di musica rispetto alla quale è forte il sospetto che siamo di fronte al nulla vestito di niente. Un minimalismo new age fuori tempo massimo, una melassa sonora nauseante e ridondante. Due sole tracce, insopportabilmente lunghe: la prima non ce l’ho fatta ad ascoltarla dopo il primo minuto, e la seconda l’ho ascoltata percorrendo velocemente i quasi 18 minuti di noia e irrimediabile inutilità, per arrivare alla fine, quando dal nulla appaiono finalmente le prime note vere: ma non sono di Max Richter, sono di Beethoven, intatte (anche se male eseguite), il tema delle variazioni della sonata per pianoforte op. 109.

Da ultimo il disco di un pianista franco-coreano, ultrasettantenne, negli ultimi anni molto sponsorizzato e pubblicato (non si capisce bene perché) dalla Decca-DeutscheGrammophon. Dal disco schumanniano di Kun-Woo Paik, appena uscito (settembre 2020), basta soffermarsi, dalle Waldszenen (Scene della Foresta), sul primo pezzo (Eintritt, Entrata), del quale chi sa di musica e di pianoforte conosce bene le insidie nascoste dietro una apparente semplicità. Vi devo dire che sono rimasto molto perplesso. Lo so, non si giudica nessuno da un pezzo solo: ma questa esecuzione purtroppo è proprio sbagliata! non solo è contro la musica scritta da Schumann (come l’immagine di copertina del disco), ma è contro la musica.

Vi propongo due esecuzioni (e, per chi legge, la partitura) delle prime battute di Eintritt.

La prima è di Arcadi Volodos: si respira il trepidare di un’entrata nella foresta fatata, lo stupore e la sorpresa ovattati e pieni di pudore che corrispondono esattamente alla perfetta, asciutta, efficace ed esigentissima scrittura schumanniana di queste battute.

Nell’esecuzione di Paik invece sembra che nella foresta stia entrando un ubriaco: nelle parti interne non c’è una figurazione uguale all’altra, il cantabile è improvvisato e pieno di goffi trasalimenti, il passo è incerto, come di chi non ha equilibrio, l’articolazione non risponde ad alcuna logica né ad alcun ordine ritmico-metrico, non c’è pudore né ritegno, e senza di essi non ci può essere il necessario e trattenuto incanto di chi sta entrando in una foresta piena di promesse ma anche di mistero. Mi pare, fra l’altro, una esecuzione tutt’altro che impeccabile anche sotto il profilo meramente pianistico, per via di una confusa gestione dei piani sonori. Tutto molto viscerale ed estemporaneo (e molto “strizzatina di occhietti”), alla Lang Lang.

Non ho la pretesa di darvi un giudizio sull’artista partendo da un solo pezzo, ma certo, se uno mette la sua faccia, come si suol dire, su un disco importante, vuol dire che ne è convinto, e di conseguenza che è lecito argomentare: e in questo pezzo purtroppo non siamo di fronte a qualcosa di opinabile, bensì, a mio parere, a una esecuzione inaccettabile. Un artista serio non lascia uscire una esecuzione così nemmeno se è un disco registrato dal vivo e gli capita la disgrazia di una brutta esecuzione (ma non così…).

La domanda è: perché Deutsche Grammphon pubblica queste cose? Perché quella cosa da Orietta Berti della Garanča? Perché la brodaglia insipida di Max Richter? Perché un mediocre pianista da un’etichetta che ha pubblicato lo Schumann di Geza Anda e di Wilhelm Kempff, o anche solo di Maurizio Pollini?

C’è infine l’altra domanda, quella da cui sono partito: chi sta uccidendo la Musica? perché se non è morta, è certo e chiaro che non sta benissimo.
No, non la cattiva musica, quella sta benone: Max Richter, Giovanni Allevi, Ludovico Einaudi, Andrea Bocelli (l’elenco purtroppo potrebbe proseguire: e taccio del cattivo pop e del pessimo rock), e le ormai stucchevoli furbastre ripetizioni di una risorsa (il cross-over stilistico) che quindici venti anni fa aveva un senso e che oggi ne ha quanto le lenticchie di San Silvestro conservate per Pasqua. No, tutto ciò sta benone, così come prosperano i Dulcamara che dicono di portare la Grande Musica al livello del Grande Pubblico, facendo un pessimo servizio tanto alla Grande Musica quanto al Grande Pubblico (uno fra tutti, Ramin Bahrami), e un ottimo servizio al loro conto in banca.
Ciò che sta male, che langue, e rischia di morire asfissiata è semplicemente la Musica (le maiuscole servono), la Musica di Bach e di Beethoven, la Musica di Brahms e di Debussy, la Musica di Schönberg e di Stravinskij; sta un po’ meglio (ma non in Italia, tranne qualche perla isolata) il teatro musicale, che produce pochissime idee rispetto alle enormi risorse che inghiotte.
Il pubblico delle sale da concerto (e anche quello dei teatri d’opera) ha una età media che sale continuamente, in modo molto preoccupante.
Non esiste più la critica musicale: ogni blogger senza né arte né parte può confezionare opinioni orecchiando, leggiucchiando e replicando le recensioni raccolte qua e là, nella rete o altrove, e scimmiottando un linguaggio da esperto, tanto ci cascano tutti.
La complessità non ha più casa.

E la Musica complessa e forte, quella di Bach e di Beethoven, quella di Schumann e di Debussy, oltre che per ragioni oggettive (il degrado civile, sociale e culturale cui l’occidente è, temo, condannato) rischia di morire perché i suoi falsi paladini fanno finta di difenderla: i tre dischi di cui vi ho brevemente parlato, e – non a caso – la (un tempo) gloriosa casa discografica che li pubblica, ne sono dimostrazione, così come i nomi che ho evocato sopra, e tanti altri potrei farne.
Ci sono bravi e seri esecutori e compositori? certo che si, anche oggi.
Ci sono case discografiche serie? certo che sì.
Ma ormai viviamo tutti in una nicchia…

Che cosa possiamo fare? La Rivoluzione, ovvio!