Riflessioni (scompiacenti) che risalgono allo scorso aprile, al lockdown primaverile, nei giorni in cui l’inopinata infatuazione per la “didattica smart” vide alcuni insegnanti – con mio sommo sgomento – pretendere di far lezione dal tinello di casa anche di domenica e nei giorni di festa comandata. C’è qualche punta di troppo, ma desidero tenere a mente qualche spunto. Tutto nacque dal ritorno alla studio di una Sonata di Beethoven eseguita in gioventù, l’op. 81a, nota come Les Adieux, e scandita (secondo l’intenzione originaria di Beethoven) nei tre momenti-movimenti: Das Lebewohl, Die Abwesenheit, Das Wiedersehn, vale a dire il salutarsi, il mancarsi, il ritrovarsi.
In molti censuriamo l’abuso di internet da parte degli adolescenti, dei giovani uomini e delle giovani donne. Siamo pronti, per lo più, a predicozzi moralistici: “non state nel bozzolo della rete! comunicate di persona, occhi negli occhi!”. Siamo noiosi, però secondo me abbiamo ragione.
Ma la cosa è un’altra. È che adesso proprio noi, censori della dipendenza della rete, siamo pronti a riconoscere (ed è tutto un cinguettare): “certo, dai ragazzi abbiamo tutto da imparare! loro usano disinvoltamente la comunicazione on line, le video chiamate, le video lezioni, lo smart-working, lo smart-learning, lo smart-tutto!”.
Quando dico “adesso” intendo dire: in queste settimane dominate dall’isolamento forzato. Settimane in cui chi non è smart, semplicemente, non è.
Mi fermo a ciò che, dal punto di vista lavorativo, meglio conosco, vale a dire il Mondo Fatato dei Conservatori di Musica. I Conservatori di musica italiani li conosco piuttosto bene: ci sono entrato nel 1972 e non ne sono ancora uscito, ininterrottamente. Ho prestato servizio in ben 9 conservatori diversi: da alcuni mi sono trasferito per avvicinarmi a casa, da altri per saturazione, e il mio peregrinare – alla soglia dei sessant’anni – non è ancora finito, temo. Dovete sapere che i Conservatori (nomina sunt omina: le etichette denunciano il contenuto e inchiodano al destino) sono per lo più luoghi in cui lo status quo si conserva: la dotazione spesso è paragonabile a penna-calamaio-inchiostro-cartassorbente, e scarseggiano le infrastrutture digitali. Nel mio attuale istituto (nella città dove molte valli convergono e si venerano coppa salame e pancetta) non posso avere accesso alla rete durante le lezioni, e il sito web – quando funziona – ricorda la triste immagine di qualche mucchietto di oggetti sparsi su un vecchio tavolo in formica verdino e scolorito. Ma al di là dei mezzi utilizzati, arcaica è la mentalità. Molti, troppi professori si credono depositari della Verità dell’Arte (anche i miei insegnanti di conservatorio, a suo tempo, sono stati – chi più chi meno – così, con una sola eccezione, che voglio nominare, quella del mio professore di Armonia, il Maestro Massimo Gallarani, un fine musicista, un sapiente didatta, un gentiluomo vero). Gli studenti vengono considerati Soggetti Gratificati dal Verbo (detenuto dal Sommo Sacerdote, il Docente), il tutto per un Fine Superiore, sdegnosamente contemplato e difeso: la Musica, l’Arte. Ogni Docente pensa che quello che non fa lui (lei) non può farlo nessun altro (nessun’altra), mai, mai più. Il Padawan è suo, solo suo. Quindi se il Padawan-Allievo si perde il Contatto Diretto con la Fonte del Sapere è semplicemente … perso, per sempre.
A me sembra che per lo più i Conservatori, e molti dei loro Sommi Sacerdoti, conservino, e difendano unguibus et rostris, una mentalità vetero-romantica, becero-ottocentesca.
Eppure i risvolti persino risibili di questa mentalità arcaico-mistica riverberano dalla venerazione che molti di questi Santoni della Didattica proclamano ad ogni piè sospinto, in questi giorni, per la Modernissima (guai!) Didattica smart.
Una pandemia dilaga, ma loro DEVONO sgravarsi del loro Sapere anche on-line: gli Studenti-Padawan non possono farne a meno, anzi, solo i migliori di questi studenti sapranno comprendere il Valore Supremo del Sapere Via Web, e non se ne priveranno. Tutto diventa smart. E questo orribile e abusatissimo aggettivo, smart (che vorrebbe dire, nella bieca approssimazione della non-lingua internazionale, qualcosa come “intelligente”, ma non nel senso di “profondo” bensì in quello di “agile e versatile”) viene trasferito dai modi della comunicazione ai contenuti della stessa. Intelligente non è tanto quello che viene comunicato, ma – somma stoltezza collettiva – i modi della comunicazione, a prescindere dal contenuto.
Nel mondo muore, spesso in tragica solitudine, un sacco di gente, tutto si ferma, anche la Ferrari e la NBA, milioni di persone se ne devono stare chiusi in casa, che nemmeno la pipì al cane puoi far fare, ma questi Maestri Jedi non possono fermarsi: a loro gli scappa di Trasmettere l’Arte (particolarmente accaniti i Depositari dell’Arte Del Solfeggio e del Dettato, e i Gran Sacerdoti dell’Arte del Basso a Parti Late). Cascasse il mondo, loro DEVONO fare la loro lezione smart: il loro Verbo deve Sconfiggere la Distanza, perché la loro è una Missione Salvifica.
Ma basta.
Voglio dire di un’epoca, e di Uomini, veri Maestri, che affrontavano la Distanza vivendo fino in fondo l’Assenza.
Che meraviglia, l’Assenza!
Quale sublime trepidante esercizio, la Distanza!
Che indicibile gioia, il momento del Ritorno!
Quale profondo insegnamento, il Tempo dell’attesa!
Non è che ho molto altro da dire, se non invitarci al riascolto della Sonata in mi bemolle maggiore op. 81a di Ludwig van Beethoven.
Volle, Beethoven, che i tre movimenti fossero intitolati:
il primo, Das Lebewohl, lo struggente, personale addio, che si dice “di cuore, ad una persona” (scrisse Beethoven), eppure pieno dello slancio di chi sa di poter vivere l’attesa e vincere l’assenza;
il secondo, Die Abwesenheit, l’Assenza: necessaria, perché sia piena e spumeggiante la gioia del:
(il terzo) Rivedersi, Das Wiedersehn, tutto gioia incontenibile e indicibile.
Sappiamo la circostanza di questa Sonata: l’occupazione di Vienna da parte delle truppe francesi, nel 1809. La Corte absburgica, compreso l’amico-mecenate-allievo di Beethoven, l’Arciduca Rodolfo d’Asburgo-Lorena lasciò la capitale (maggio 1809): vi avrebbe fatto ritorno alcuni mesi dopo (gennaio 1810). Ma al di là della circostanza, forse poco importante, Beethoven (in lui la circostanza conta, ma quasi mai è solo circostanza) in questa sonata sperimenta in musica una triade emotiva fondamentale, già ben annotata nei primitivi abbozzi del pezzo: Abschied, Abwesenheit, Ankunft (congedo, assenza, arrivo), la cui portata esistenziale è – credo – chiara per tutti.
Per tutti, tranne che per i Gran Sacerdoti della Didattica Musicale a Distanza: per loro la feconda assenza e lo stupore del ritrovarsi (ciò a cui in realtà i ragazzi andrebbero davvero educati), sono piccola povera cosa.
Io sto con Beethoven